Redatto il 25 maggio, aggiornato il 29 dicembre 2024
I Pfas sono ovunque: nell’acqua delle falde in Lombardia, nella carta igienica o nella frutta e verdura.
I media tradizionali ne parlano pochissimo ma il problema esiste e con questo articolo vogliamo portarlo alla vostra attenzione perchè i Pfas sono cancerogeni.
Pfas in Veneto : c’è un nesso causale tra contaminazione e mortalità
Risiedere nella cosiddetta Area Rossa, tra le province di Vicenza, Verona e Padova, in Veneto, tra il 1980 e il 2018 (ma probabilmente fino a oggi), ha significato essere involontariamente esposti a un rischio di morte, di malattie cardiovascolari e di almeno due tipi di tumore più alto rispetto alla media nazionale. In quella zona (che comprende una trentina di comuni e una popolazione di circa 150.000 abitanti), a partire dagli anni ottanta, c’è stata una massiccia dispersione da PFAS nelle acque, con un evento particolarmente grave nel 2013. Il risultato è stato che tutte le acque, da quelle più superficiali fino a quelle di falda, sono state inquinate, al punto che anche l’acqua potabile era contaminata. E chi ha vissuto nell’Area, bevendo tutti i giorni acqua con PFAS, e assorbendo gli PFAS contenuti nell’acqua anche in altri modi, è stato vittima di un avvelenamento silenzioso.
Gli PFAS e l’aumento del rischio
Com’è noto, gli PFAS, sostanze perfluoroalchiliche, sono (circa 15.000) praticamente ubiquitarie perché conferiscono proprietà idro- e oleo-repellenti. Negli ultimi anni sono stati associati a un aumento di rischio di numerose malattie, da quelle endocrine a quelle cardio- e cerebrovascolari fino allo sviluppo dei bambini. Nel 2023 l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’OMS di Lione (IARC) ne ha dichiarati alcuni cancerogeni certi per l’uomo, con effetti meno certi, ma più che probabili per quanto riguarda i tumori dei reni e quelli dei testicoli.
Gli effetti sulla salute sono visibili già a basse concentrazioni, e arrivano fino alla mortalità, che risulta aumentata. Ma quando, come in questo caso, vi sono contaminazioni con livelli molto elevati, il danno è pressoché certo, e può essere rilevante. Per questo i ricercatori dell’Università di Padova, guidati da Annibale Biggeri, hanno voluto verificare se, dopo quanto accaduto nell’Area Rossa, l’effetto fosse quantificabile dal punto di vista statistico, e hanno così dimostrato, per la prima volta, l’esistenza di un nesso causale tra la contaminazione da PFAS e alcune anomalie statistiche negli indici di salute e in quelli di mortalità.
Lo studio dei ricercatori padovani
Per capire se l’esposizione agli PFAS si fosse tradotta o meno in effetti misurabili, i ricercatori si sono serviti dei dati ufficiali del Registro Tumori dell’Emilia Romagna e del Servizio statistico dell’Istituto Superiore di Sanità, e si sono avvalsi anche della collaborazione del gruppo Mamme No PFAS, da anni attivissimo nel denunciare i problemi associati alle acque contaminate. In particolare, hanno analizzato i dati del periodo compreso tra il 1980 e il 2018, durante il quale ci sono stati circa 29.600 decessi tra gli uomini, e 29.500 tra le donne (qui lo studio).
Presumendo che la contaminazione sia iniziata nel 1985, e sia durata almeno 34 anni (il 2018 è l’ultimo anno per il quale sono disponibili i dati, anche se è probabile che nel frattempo la situazione non sia cambiata molto), i decessi sono stati poco più di 51.600, contro i 47.700 attesi in base a quanto si è visto nelle zone limitrofe non interessate dalla contaminazione.
Lo studio ha dimostrato un nesso causale tra la contaminazione da PFAS e alcune anomalie statistiche negli indici di salute e in quelli di mortalità
In altri termini, ci sono stati almeno 3.800 decessi in più, pari a uno ogni tre gironi, attribuibili agli PFAS. In particolare, si è avuto un aumento delle malattie cardiovascolari quali gli infarti, e dei tumori più strettamente associati agli PFAS, e cioè quelli dei reni e quelli dei testicoli. Inoltre, è emerso un aumento del rischio di insorgenza di malattie tumorali al diminuire dell’età: i bambini sono stati le prime vittime, mentre le donne in età fertile, un po’ a sorpresa, sono risultate più protette, forse perché trasferiscono gli PFAS al feto e ne hanno quindi di meno, nel proprio organismo.
Lo studio di coorte e le Mamme No PFAS
Le Mamme No PFAS, anche grazie a questo lavoro, sono tornate a chiedere uno studio di coorte approvato dalla Regione nel 2016, ma mai partito. Questo tipo di ricerca potrebbe fornire informazioni che l’attuale Piano di Sorveglianza non può dare, relative, per esempio, agli effetti a lungo termine e all’identificazione dei singoli fattori di rischio, e servirebbe per definire politiche di salute pubblica più incisive di quelle attuali.
Oggi tutti gli acquedotti della zona rossa hanno da filtri anti-Pfas che, però, hanno una sensibilità che arriva a 5 nanogrammi per litro, e potrebbero quindi lasciar sfuggire parte degli PFAS. Inoltre, non tutti gli abitanti sono allacciati agli acquedotti, perché chi vive nelle zone rurali spesso sfrutta l’acqua dei suoi pozzi. E sui terreni non è attiva alcuna bonifica, mentre sarebbero tutti da decontaminare.
Tra l’altro, le Mamme No PFAS denunciano una maggiore incidenza anche di patologie diverse da quelle analizzate nello studio quali, per esempio, quelle della tiroide, i deficit dell’attenzione dei bambini, i parti prematuri, fino agli aborti spontanei. E non hanno dubbi sulla direzione da prendere: “Sosteniamo con forza” scrivono sul sito “la necessità di bandire la produzione e l’utilizzo delle PFAS, come intera classe di sostanze, a livello globale”.
Sotto la carta dell’inquinamento da Pfas, in Europa e in Italia: il Veneto ha subito una situazione molto pesante, a causa di un’azienda, la Miteni, ma il livello dei Pfas nel resto del Paese andrebbe indagato e monitorato.
E ci sono anche dei sistemi con i quali si può iniziare a difendersi, per verificare il livello di Pfas nell’acqua di casa.
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