Questo è il seguito di :
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- Svolta Google sulla pubblicità, stop ai tracciamenti personali
- Amazon contro Google: oltre l’e-commerce, tra pubblicità, monopoli e antitrust per le big tech
- Web tax ai Gafam : apertura di Biden
Dalla distruzione creatrice al capitalismo iniquo: la parabola di Google e Facebook
di Federico Rampini (Repubblica 7 marzo 2021)
1998: in un garage di Menlo Park nella Silicon Valley californiana nasce Google, la creatura di due studenti di Stanford. Anche se i suoi fondatori Larry Page e Sergey Brin non hanno mai avuto il carisma di Steve Jobs, e neppure l’aureola da pionieri di Bill Gates, dalla nascita di Google nel 1998 hanno costruito un dominio senza eguali nel loro mestiere-chiave: il motore di ricerca. Come Gates, come Jobs, e più tardi come Zuckerberg, i creatori di Google seguono una parabola biografica, etica e culturale che ha delle costanti. Nella Silicon Valley si nasce “rivoluzionari”, idealisti, decisi a costruire un mondo migliore. Poi i giovani sovversivi, crescendo e coprendosi di gloria imprenditoriale, finiscono quasi sempre per diventare dei turbo-capitalisti, predatori, aspiranti monopolisti. Il cerchio della “distruzione creatrice” si chiude con un modello di capitalismo non meno iniquo e diseguale di quello precedente. 23 anni dopo la nascita, la società capogruppo Alphabet- Google ha 135.000 dipendenti, vale in Borsa 1.400 miliardi di dollari, ed è inseguita da authority antitrust di mezzo mondo.
Controllare il motore di ricerca, stabilirne i criteri di selezione (l’algoritmo), significa guidare per mano un bel pezzo di umanità, nella sua attività di conoscenza. Che Google sia in grado di esercitare un potere formidabile, lo ha capito un altro potere formidabile: la Cina. Che da anni gli ha chiuso i cancelli di accesso al “suo” Internet. I cinesi ci hanno superati nell’uso quotidiano delle tecnologie. Navigano online più di noi. Con altri motori di ricerca, altri algoritmi. Altri padroni e maestri.

Col suo potere sempre più immenso, Google colleziona scandali, e poi se li lascia alle spalle. Acqua passata è l’ondata di denunce sulla privacy degli utenti violata, saccheggiata. I capi di Google abbozzano scuse ma la storia del loro gruppo li ha resi cinici: chi ricorda l’epoca in cui giurarono che mai la pubblicità si sarebbe infiltrata nel motore di ricerca? La Carta buonista di Google alle origini – “non essere malvagi” o fare il bene dell’umanità – ha conosciuto tanti strappi, senza con questo alienare la clientela.
E’ passato nell’oblìo il fatto che Gmail rapina quotidianamente informazioni dalle nostre email e le usa per scopi commerciali. Le auto con telecamera di Google Map e Google Earth non si limitavano a fotografare strade e piazze per costruire e aggiornare la mappatura delle nostre città. Spiavano anche noi, intercettando i segnali wi-fi di casa nostra s’impadronivano di password, email, perfino conti bancari e informazioni mediche. Spionaggio con milioni di vittime ignare: noi.
Smascherata già nel 2010, Google dapprima nega. Poi minimizza la quantità d’informazioni saccheggiate. Infine sostiene di averle perdute. Alla fine ammette la sua colpevolezza. Patteggia, in una causa promossa da 38 Stati Usa, riconoscendo l’ampiezza del danno e la propria responsabilità. Solo 7 milioni di dollari di multa, un’inezia ridicola per un gruppo di questa ricchezza.
In una puntata più recente del suo duello infinito coi regolatori, il 18 luglio 2018 l’Unione europea infligge una multa più sostanziosa a Google: 4,3 miliardi di euro.
Ma la fantasia creativa dei giganti digitali escogita sempre nuove soluzioni per perpetuare un potere dominante. Google, Facebook, hanno ciascuno una dimensione soverchiante ed eccessiva nella propria attività principale. Le multe vengono scaricate sui consumatori, sui clienti, sugli azionisti: non le paga il top management e quindi non hanno alcun effetto “educativo”.
La strada maestra per contenere la loro prepotenza, sarebbe la competizione. Qui l’Europa è debole. Non ha campioni nazionali che facciano concorrenza a quelli della West Coast americana. Ad allevare dei campioni c’è riuscita la Cina (Alibaba e Tencent) ma lo ha fatto dietro robuste barriere protettive e intralci insormontabili alla penetrazione americana (Google e Facebook ostracizzati dalla censura).
All’origine ci fu tanta innovazione, ma come tutte le imprese di successo anche le sorelle digitali hanno pulsioni monopolistiche. Per esempio: fanno incetta di migliaia di brevetti, per costruire attorno a sé delle muraglie insormontabili, scoraggiare i concorrenti più piccoli, terrorizzare i nuovi arrivati con la minaccia di processi miliardari. Alla fine, non a caso, tante start-up innovative preferiscono vendersi al migliore offerente.
Gli scandali sono una costante nella vita di Mark Zuckerbeg. Cominciò nel 2003, quando era ancora uno studente all’università di Harvard: dovette chiudere un sito che si chiamava Facemash: consentiva agli utenti di dare voti all’aspetto fisico dei loro compagni di studio, una trovata esposta all’accusa di sessismo perché molti lo usavano per stilare classifiche delle studentesse più carine. Quell’incidente iniziale, nella preistoria dei social media, è anche un monito che ci riguarda tutti: perché i Padroni della Rete hanno sfruttato spesso un pubblico compiacente, pronto a fare lo spogliarello virtuale per inseguire il miraggio della gratuità. Quando ci dicono che qualcosa è gratis su Internet, il prodotto in vendita siamo noi: quante volte ormai abbiamo sentito questo avvertimento, e abbiamo continuato a ignorarlo?
Facebook, la sua creatura fortunata, nacque l’anno successivo, il 4 febbraio 2004, sempre nel campus di Harvard. Da allora ogni passo della sua folgorante carriera – trasferitasi nella Silicon Valley californiana – è stato segnato dallo slittamento progressivo dei confini della privacy. Fino al ruolo di Facebook nel Russiagate 2016, come strumento della propaganda russa che lavorava per sabotare la candidatura di Hillary Clinton, a colpi di fake-news. Infine con la vicenda di Cambridge Analytica, la società di marketing politico ingaggiata dalla campagna elettorale di Donald Trump, che ha saccheggiato i dati di 87 milioni di utenti americani.
“I furti di dati da Facebook sono colpa mia – ha detto Zuckerberg quando nell’aprile 2018 è stato convocato per un’audizione parlamentare a Washington – e mi prendo tutta la responsabilità. Ma noi restiamo un’azienda idealista e ottimista, un forza positiva nel mondo. Su Facebook si è organizzato il movimento delle donne #MeToo, e la solidarietà con gli alluvionati dell’uragano Harvey”. Abile accostamento: con quei due esempi ha citato un movimento femminista che piace alla sinistra, e una mobilitazione civile della società texana di fronte alla calamità naturale, che lusinga la destra. Il multimiliardario con la faccia da adolescente e da cherubino è stato pronto a genuflettersi simbolicamente, recitare mea culpa, promettere che non lo farà mai più.
Da quella storica sceneggiata al Congresso di Washington è emersa un’ammissione interessante: Zuckerberg riconosce che Facebook ha una responsabilità sui contenuti che circolano sulla sua piattaforma, quindi a rigore dovrebbe essere trattato come come i media tradizionali che sono soggetti a regole e sanzioni ben più pesanti. Molte voci autorevoli sostengono che il social media dovrebbe essere regolato come una utility, un servizio pubblico quali elettricità e acqua: ma è improbabile che questo accada. Il 2020 ha portato due conferme, e una speranza di cambiamento. Da un lato ha arricchito ancor più Facebook, Google, e i loro azionisti e top manager. Dall’altro ha cementato l’alleanza tra i miliardari della Silicon Valley e la sinistra: la censura dei social contro Trump, legittima o meno che sia, ha confermato da che parte sta l’establishment di Big Tech.
La sorpresa, è che alla Casa Bianca la nuova squadra di governo democratica sembra un po’ meno succube che in passato, verso gli interessi economici dei giganti digitali.
Una Borsa ai massimi storici, l’euforia della finanza: in America i vincitori della pandemia sono gli stessi che vincevano anche prima cioè l’alleanza fra Silicon Valley e Wall Street, i due settori che hanno fatto profitti record. Le diseguaglianze sono aumentate vistosamente, benché partissero già da livelli estremi. Al successo dei capitali investiti in Borsa corrisponde un aumento dell’area della povertà. Proprio le due zone-simbolo della creazione di ricchezza, la Silicon Valley attorno a San Francisco, e New York City, vedono anche la massima concentrazione di homeless. Sono le due Americhe governate localmente dalla sinistra. La speranza che la dittatura di Facebook, Google & C. possa conoscere qualche turbolenza, l’ha alimentata Janet Yellen. La segretaria al Tesoro ha rinunciato alle obiezioni sulla digital tax globale.
E’ una svolta nella posizione americana in seno al G-20. Finora gli Stati Uniti difendevano l’elusione fiscale di Big Tech. E’ un primo segnale che la collusione perversa tra sinistra e miliardari del digitale può lasciare il posto ad una fase nuova.



