prima stesura del 13 gennaio 2014, ultimo aggiornamento del 22 settembre 2015
Il testo dell’Onu sulle foreste al padiglione Zero di Expo
A volte, quando si legge un articolo ci si domanda: “sarà vero?”.
Poi se ne trova un altro e la conferma è ancor più gradita perchè due articoli che dicono la stessa cosa sono più di una notizia …
Se poi ce n’è un terzo abbiamo la conferma di una tendenza.
E’ il caso dell’argomento che trattiamo oggi, dove le notizie tratte da IO DONNA, LE MONDE e THE ECONOMIST vanno tutte nella stessa direzione…
le foreste stanno scomparendo nel Sud del mondo, mentre tendono a farsi avanti in Occidente.
Su questo sito abbiamo dato qualche esempio di miglioramento in Occidente (v. il reinserimento della pecora selvatica delle Montagne Rocciose) e di peggioramento nel Sud del Mondo, con la strage degli elefanti e dei rinoceronti in Africa.
tra il 2000 e il 2012 abbiamo perso foreste tropicali per una superficie grande otto volte l’Italia
purtroppo le foreste tropicali perse sono immense e la biodiversità andata in fumo in quelle zone non si recupera altrove…
i primi responsabili della devastazione delle foreste occidentali siamo noi europei…
dell’importanza di acquisto di legname certificato…
in Italia, la superficie di boschi e foreste è salita dal 20% nel 1940 al 30%.
C’è da dire che molte di queste aree italiane sono occupate da vegetazione invasiva e poco pregiata (Ailanti e Robinie).
Se è poi “facile” vedere la volpe, come dice IO DONNA..
l’avvistamento di altri animali, come il tasso, diventa praticamente impossibile… anche se capita di trovarne le tracce e le buche in giardino…
The Economist del 14 settembre 2014 conferma questi cambiamenti radicali: miglioramento della biodiversità nei paesi occidentali e peggioramento nei paesi del Sud del mondo
Unico neo dell’Economist: la rivista pensa che gli OGM (i “GM” sopra citati) siano una delle soluzioni ai problemi dell’ ambiente e dell’umanità.
Ma chiunque conosca un pò l’argomento sa che le coltivazioni transgeniche portano all’esatto contrario e cioè a un grande impoverimento della biodiversità, attraverso le monoculture (in prevalenza soia Roundup ma anche cotone, mais, colza…) che impoveriscono il suolo, contaminazioni delle culture convenzionali o bio, disoccupazione e conseguente esodo dei contadini verso le bidonville delle città, più inquinamento dovuto al progressivo incremento nell’uso degli erbicidi (Roundup su tutti ma anche Glifosato e altri) e piante più vulnerabili alle malattie.
Ciò avviene in Paraguay, Colombia, Argentina, Brasile, Messico, India e in parte anche negli USA, patria degli OGM.
l’unico vero effetto degli OGM è far arricchire alcune multinazionali come Monsanto.
Il peggior esempio di disastro causato da monoculture è evidenziato da Le Monde del 25 gennaio 2014 (sotto) con la soia ,che già nel 2007 occupava il 60% della superficie agricola dell’Argentina.
La coltivazione della soia transgenica ha avuto gli effetti seguenti:
l’ impoverimento dei campesinos (dal 1991 al 2001 150’000 agricoltori hanno perso le loro terre) e della biodiversità agricola e forestale (tutti i bosques nativos – le foreste primordiali – sono minacciate. Dal 1998 al 2004 ne sono state ne sono state distrutte per 800’000 ettari !) .
l’impoverimento del suolo e l’innalzamento dei prezzi dei prodotti agricoli che servono alla consumazione di base (l’Argentina , da sempre grande produttore di latte si è vista costretta ad importarlo, in parte, dall’Uruguay…)
Ora lo Stato argentino, grazie ad una politica economica disastrosa per se e per il suo popolo, è sull’orlo del baratro, esattamente come nel 2001.
Queste tendenze vengono confermate dal testo di Carlo Fadda, ricercatore senior presso l’Università di Nairobi .
Quest’intervista è stato esposta al quinto Forum internazionale su alimentazione e nutrizione, promosso da Barilla Center for Food and Nutrition (Bcfn),
Carlo Fadda: «Solo la biodiversità può proteggere la nostra sopravvivenza»
“L’agricoltura moderna è vulnerabile a causa della bassa diversità genetica delle colture.
Solo gli ecosistemi basati su animali e piante autoctone sono in grado di reagire naturalmente ai cambiamenti
Vincenzo Petraglia
8 gennaio 2014
Carlo Fadda
Secondo la Fao ogni anno vengono mediamente distrutti nel mondo ben 13 milioni di ettari di foreste (una superficie grande praticamente quanto tutta la Grecia), mentre la varietà delle piante e delle colture continua a ridursi inesorabilmente.
Nei soli Stati Uniti d’America, per esempio, all’inizio del secolo scorso esistevano circa 2500 varietà di pere, coltivate oggi in appena due varietà, che alimentano oltre il 95% del mercato.
Svariate ricerche registrano come negli ultimi decenni sia aumentata in maniera vertiginosa la velocità con cui si estinguono specie vegetali ed animali, dovuta nella massima parte dei casi all’attività umana: deforestazione, urbanizzazione, agricoltura intensiva basata su grandi coltivazioni monocolturali, introduzione di specie geneticamente modificate che distruggono la naturale varietà delle specie autoctone, inquinamento, uso di pesticidi e fertilizzanti e così via.
Negli ultimi 400 anni si stima che siano scomparse, infatti, oltre 650 specie di piante.
Dati allarmanti che ci pongono di fronte a seri interrogativi, che abbiamo posto a Carlo Fadda, ricercatore senior presso la Bioversity International di Nairobi nonché promotore di numerosi progetti nel campo dello sviluppo e della cooperazione internazionale legati alla salvaguardia della biodiversità agricola, a margine del quinto Forum internazionale su alimentazione e nutrizione promosso da Barilla Center for Food and Nutrition (Bcfn).
Perché oggi è così importante proteggere la biodiversità?
Perché è in gioco la nostra stessa sopravvivenza. Dipendiamo dalla natura per risorse fondamentali quali cibo, principi attivi per le medicine, materie prime per costruire o produrre energia. In natura ogni specie animale o vegetale, indipendentemente da quanto sia piccola o grande, ha una sua specifica funzione che contribuisce a garantire l’equilibrio dell’ecosistema terrestre. Pensiamo, per esempio, alle api che attraverso l’impollinazione svolgono un’importantissima funzione di fertilizzazione. Alcuni studi stimano che oltre un terzo degli alimenti umani verrebbe meno se sparissero impollinatori naturali come le api le vespe, le farfalle e altri insetti. Ecosistemi in salute, nei quali viene garantita la naturale varietà di animali e piante autoctone, sono ecosistemi che meglio reagiscono e resistono ai fenomeni atmosferici, meno vulnerabili pertanto ai cambiamenti climatici e a disastri naturali quali uragani, inondazioni, siccità e alle altre fonti di stress provocate dall’uomo e dall’inquinamento di cui è portatore. Una tematica che oggi, specialmente nei paesi più poveri, è di vitale importanza….
La biodiversità agraria è un antiparassitario naturale
Ci spieghi meglio…
Ogni anno circa il 30% dei raccolti nel mondo va perduto a causa di parassiti e malattie e l’utilizzo di colture geneticamente omogenee su grandi estensioni di terreno può causare la comparsa proprio di nuovi ceppi di malattie e parassiti. Per correre ai ripari nei paesi industrializzati si fa uso massiccio di pesticidi, notoriamente dannosi sia per l’uomo che per l’ambiente, solitamente non accessibili invece ai piccoli coltivatori dei paesi poveri. Una risposta alternativa al problema può darla proprio la salvaguardia della biodiversità agraria, capace di svolgere funzione di antiparassitario naturale. È stato dimostrato che l’utilizzo di diverse varietà di una stessa coltura riduce di molto le possibilità, per quella coltura, di essere attaccata da parassiti.
Qual è la strada da percorrere per non peggiorare ulteriormente la già precaria situazione in cui ci troviamo?
Bisogna innanzitutto partire dall’avere ben chiaro una cosa: l’agricoltura moderna è vulnerabile a causa della bassa diversità genetica delle colture. Chiarito questo, bisogna investire in ricerca e tecnologie che riducano, per esempio, l’uso dei fertilizzanti e ridiano all’agricoltura la sua naturale capacità di sopravvivenza e adattamento ai cambiamenti climatici. Questo lo si fa preservando innanzitutto colture e piante autoctone a scapito delle grandi estensioni di monoculture che sempre più negli ultimi decenni hanno preso il sopravvento nel mondo. Ovviamente risulta poi molto importante portare avanti una profonda opera di sensibilizzazione sia al livello dei governi che dei singoli cittadini, puntando innanzitutto sulle nuove generazioni.
Cosa può fare in concreto ciascuno di noi per contribuire alla salvaguardia della biodiversità?
Si potrebbe cominciare col ridurre gli sprechi d’acqua e di energia nel nostro quotidiano e preferendo sempre un’alimentazione a base di prodotti di stagione. Fondamentale sarebbe inoltre una partecipazione più attiva di ciascuno di noi nell’opera di sensibilizzazione degli altri nei confronti delle tematiche ambientali”.
Il problema della biodiversità in agricoltura, aggravato dal cambiamento climatico , è confermato da The Economist del 12 settembre 2015:
Solo 30 speci di piante ci forniscono il 95% delle energie che provengono dal cibo .
La Fao stima che il 75% delle biodiversità agricola sia sparita tra il 1900 e il 2000.
E fino al 22% dei semi di patate, arachidi e leguminose potrebbero sparire entro il 2055 a causa dell’inquinamento e del riscaldamento globale.
Agricultural biodiversity
Banks for bean counters
The wild ancestors of the world’s most important crops could help avert devastating problems. But time is running out to collect them
The wild ancestors of the world’s most important crops could help avert devastating problems. But time is running out to collect them
Scientists raced to find a solution. They screened over 6,000 samples of rice and its wild relatives until they found a unique sample from central India of a wild species called Oryza nivara that was resistant to the virus. By crossing it with domesticated rice strains, plant-breeders transferred the resistant genes into a new variety. Today, millions of farmers across Asia grow rice derived from such crosses.
“Crop wild relatives”—the wild ancestors of cultivated plants—are a valuable weapon in the fight against hunger. Together with varieties used by traditional farmers, they contain a wealth of genetic diversity. Yet they are under-researched and under-collected. With their survival threatened by population growth and environmental damage, the race is on to find them before it is too late.
Climate change is expected to cause higher temperatures and more frequent droughts, changing the distribution of pests and diseases. Population growth will add to the pressure on productive land: the UN expects the number of people in the world to rise from 7.3 billion today to 9.7 billion by 2050. This, together with a switch to more meat-eating, will mean a big increase in the demand for food. The UN Food and Agriculture Organisation (FAO) says humanity will need 70% more food by then.
Dependence on a few staples worsens the consequences of any crop failure. Just 30 crops provide humans with 95% of the energy they get from food, and just five—rice, wheat, maize, millet and sorghum—provide 60%. A single variety of banana—Cavendish—accounts for 95% of exports. A fast-spreading pest or disease could see some widely eaten foodstuffs wiped out.
That makes it even more important to preserve the genetic diversity found in crop wild relatives and traditional varieties as an insurance policy. Alas, much of it has already disappeared. The FAO estimates that 75% of the world’s crop diversity was lost between 1900 and 2000. As farming intensified, commercial growers favoured a few varieties of each species—those that were most productive and easiest to store and ship.
According to Cary Fowler of the Global Crop Diversity Trust, an international organisation based in Germany, in the 1800s American farmers and gardeners grew 7,100 named varieties of apple. Today, at least 6,800 of them are no longer available, and a study in 2009 found that 11 accounted for more than 90% of those sold in America. Just one, “Red Delicious”, a variety with a thick skin that hides bruises, accounts for 37%.
Meanwhile urbanisation, pollution, changing land use and invasive species are threatening the crop wild relatives that survive. A study in 2008 concluded that 16-22% of those related to peanuts, potatoes and cowpeas (a legume grown in semi-arid tropics) will have vanished by 2055 as a result of climate change.
Terreno agricolo ad Albiate
Seed banks are the best hope of preserving those that remain. Dehydrating and freezing seeds means that they can be kept for hundreds, perhaps even thousands, of years, and still sprout when given light and water (as botanists need to do on occasion). Some 7.4m samples are already in seed banks around the world, but huge gaps exist.
Unbalanced diet
As part of a study to be published later this year, Colin Khoury and Nora Castañeda-Álvarez of the International Centre for Tropical Agriculture (CIAT), a research facility in Colombia, studied the state of conservation of more than a thousand crop wild relatives in seed banks. They found that for over 70% there were either too few samples for safety or none at all.
The Millennium Seed Bank (MSB) in Sussex, part of Britain’s Royal Botanic Gardens, is the world’s largest wild-plant seed bank, housing 76,000 samples from more than 36,000 species. It co-ordinates “Adapting Agriculture to Climate Change”, a $50m, ten-year international programme funded by Norway to collect and store wild relatives of 29 important crops, cross them with their domesticated kin and share the results with breeders and farmers. Its freezers are solar-powered and its vault is built to withstand a direct hit by a plane (Gatwick airport is close by). Other seed banks are more vulnerable. Staff at the International Centre for Agricultural Research in the Dry Areas, an institute once based in Syria, now found in Lebanon, shipped 150,000 samples to save them from being damaged in the former country’s civil war; seed banks in Afghanistan and Iraq have been destroyed. The Philippines lost one to fire.
Located in Cali, Colombia’s third-largest city, CIAT is home to more than 300 scientists. It has a mandate from the UN to protect, research and distribute beans and cassava, staple foodstuffs for 900m people around the world. Its seed bank, housed in a former abattoir, contains over 36,000 samples of beans, more than any other seed bank, and varieties developed there feed 30m people in Africa.
For many years CIAT’s researchers concentrated on creating varieties that could cope with poor soils and drought. But they have now turned their attention to heat resistance. Earlier this year they announced that they had found heat resistance in the tepary bean, a hardy cousin of the common bean cultivated since pre-Columbian times in northern Mexico and America’s south-west. Crosses with commonly cultivated beans such as pinto, black and kidney beans show potential to withstand temperatures up to 5°C higher than those common varieties can cope with. Even a lesser increase in heat resistance, of 3°C, would mean beans could continue to be cultivated in almost all parts of central and eastern Africa, says Steve Beebe of CIAT’s bean-breeding programme.
Big agricultural firms are also creating improved crops with the aid of genetic modification. MON863, for example, a maize variety engineered by Monsanto, contains an artificially inserted protein which targets the larvae of the rootworm, a pest which causes around $1 billion of damage each year in America alone. But developing such varieties has been expensive and slow in the past—and the fear of “Frankenstein food” can put consumers off. New varieties produced by crossing crop wild relatives are cheaper and less controversial.
In recent years politicians have stepped up efforts to conserve crop genetic diversity. The International Treaty on Plant Genetic Resources for Food and Agriculture, which came into effect in 2004 and has been signed by 135 countries and the European Union, identifies 35 food crops that are considered so important to global food security and sustainable agriculture that their genetic diversity should be widely shared. But it has worked less well than hoped. In 2013 a group of Norwegian researchers sent letters to 121 countries requesting seeds. Only 44 complied. Communication broke down with 23 and 54 did not even reply.
If a big crop were to fail, a single useful gene lurking in one wild relative could prevent calamity. PwC, an accountancy firm, values the genes derived from the wild relatives of the 29 crops regarded as most important by the MSB at $120 billion. Preserving the genetic diversity that remains would be an excellent investment.
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