Questo è il seguito di :
- Svolta Google sulla pubblicità, stop ai tracciamenti personali
- Amazon contro Google: oltre l’e-commerce, tra pubblicità, monopoli e antitrust per le big tech
I due link riguardano la pubblicità mentre qui si abborda il rapporto piattaforme – media.
La Guerra mondiale delle News
a cura di Carlo Bonini (coordinamento editoriale e testo), Alessio Balbi, Jaime D’Alessandro, Andrea Iannuzzi Raffaella Menichini e Federico Rampini. Coordinamento multimediale di Laura Pertici . Grafiche e video a cura di Gedi Visual- 7 marzo 2021
Google e Facebook sono schierati contro il resto del Mondo.
Così i grandi gruppi vogliono conservare il monopolio della Rete e gestire il futuro dell’informazione globale: perché alla fine non è solo una questione di algoritmo.
La nostra contemporaneità digitale, gli assi cartesiani della nostra conoscenza, da quasi trent’anni sono al centro di un conflitto che ha in palio immense ricchezze e la nostra stessa idea di libertà. L’uomo si autodetermina in base alle sue conoscenze ed esperienze. La Rete e i suoi giganti – Google e Facebook su tutti – hanno la disponibilità e il controllo di entrambe. Perché di entrambe hanno le chiavi di accesso. Nelle loro mani è il sacro Graal che dopo aver scardinato il monopolio della verità, che nei cinquecento anni dell’era di Gutenberg è stato appannaggio dei signori della carta, ha imposto un nuovo paradigma della conoscenza che ha come suo strumento universale i motori di ricerca e che risponde al criterio selettivo della tripla A. “Algorithms. Analytics. Advertising”.
È stata ed è una rivoluzione ancora in corso. Gli editori e gli autori dell’intero pianeta, l’industria dell’informazione, sono entrati da almeno due lustri in una tempesta dove in molti si sono inabissati. Che ha drammaticamente modificato il mercato della pubblicità (da sempre, sostegno fondamentale dell’editoria), cambiato le abitudini di lettura, riproposto il tema del monopolio, ma questa volta a fattori invertiti. Con i “liberatori” di ieri nei panni dei nuovi sovrani.
E i monopolisti di ieri, in quelli dei difensori del diritto alla tutela del copyright, quale pilastro a difesa della libertà di impresa intellettuale, prima ancora che economica. Il precipitato di questo conflitto ha quale posta in palio l’obbligo da parte dei giganti della Rete di redistribuire agli editori e autori parte degli utili realizzati con lo sfruttamento dei loro contenuti. Il diritto alla visibilità e insieme a un equo compenso.
È un conflitto che in Europa vede ingaggiato il Parlamento Europeo e che, in Australia, il mese scorso ha conosciuto una sua prima tregua. Dopo un braccio di ferro che ha visto Facebook oscurare in via ritorsiva ogni news proveniente dal continente upside-down, una nuova legge obbliga le grandi piattaforme digitali – in particolare Google e Facebook – a raggiungere accordi commerciali con gli editori per pagare il valore generato dai contenuti giornalistici sulle stesse piattaforme.
Abbiamo dunque deciso di portarvi in questa “guerra”, con un viaggio che ne renda chiari i presupposti, affinché ne siano intelligibili gli approdi. E, con loro, le implicazioni e le contraddizioni. Prima fra tutte quella che ha visto la “distruzione creatrice” partita dalla Silicon Valley, trasformarsi nel suo contrario: un nuovo capitalismo digitale iniquo e monopolista.
C’era una volta
La cabala volle che tutto cominciasse il 6 agosto 1991, anniversario di Hiroshima. Come se in quella ricorrenza fosse inscritto un presagio. Quel giorno, nasceva il World Wide Web: www. L’informatico inglese Tim Berners Lee, dopo due anni di studi al Cern di Ginevra, carica su internet rete allora già esistente che consente di scambiare dati tra computer interconnessi fra loro – la prima pagina ipertestuale basata su protocollo Html. Passeranno pochi anni e quel vagito si trasformerà in ruggito.
La costa Ovest degli Stati Uniti è da poco rimasta orfana di Kurt Cobain, il frontman dei Nirvana che cantava Come as you are, “vieni come sei, come un amico, come un vecchio nemico”. E c’è una valle in California, scavata tra le colline che si alzano intorno al campus della Stanford University, che, tra Cupertino e Palo Alto, Mountain View e San Jose, è fucina di innovazione. La chiamano valle del silicio perché è già il cuore mondiale dell’elettronica e dell’informatica.
A San Jose, capoluogo della Valley e terza città della California con un milione di abitanti, c’è un giornale locale che respira il vento della rivoluzione digitale: il San Jose Mercury News.
Già nel 1993, ha cominciato a pubblicare notizie online sul portale di Aol e nel 1995 lancia il suo sito Internet, seguito a ruota dalla Cnn – il canale televisivo all news di Ted Turner – e dal Chicago Tribune, uno dei grandi giornali metropolitani che in quell’epoca costituiscono l’ossatura portante dell’informazione americana.
Nel 1996, va online il New York Times. Nel gennaio del 1997, sull’altra sponda dell’Oceano, comincia le sue pubblicazioni Repubblica.it.
Sempre in quell’anno anche il Wall Street Journal, bibbia economica di New York, inaugura il suo sito. Ma fa una scelta diversa: il primo paywall digitale. Chi vuole accedere alle preziose informazioni finanziarie della testata, deve abbonarsi. Un’eresia, in quella rete dei pionieri, nella quale tutto è – o sembra essere – gratuito e disponibile.
Quando le testate tradizionali cominciano ad andare online accettando il terreno della gratuità, sottovalutando il rischio di cannibalizzazione e autocannibalizzazione del proprio business cartaceo, Google ancora non esiste. Arriverà solo due anni dopo, quando due cavalieri della valle del Silicio – Sergey Brin, figlio di una famiglia di immigrati ebrei russi e Larry Page – decidono di partire alla conquista del mondo armati di bit e stringhe di codice.
Ancora non sanno che di lì a pochi anni loro e i loro emuli (Mark Zuckerberg, Jeff Bezos) diventeranno i plenipotenziari di un impero planetario. Quello della tripla A.
Algorithms. Analytics. Advertising.
La rete è già dotata di motori di ricerca. Ma Google è diverso, il suo algoritmo combina decine di parametri con una formula matematica segreta e garantisce non solo risultati di particolare precisione, ma riesce a ordinarli in una sequenza di rilevanza. Di più: l’algoritmo impara dai comportamenti in rete dell’utente, che analizza. Dunque, è in grado di profilarlo, riuscendo a offrirgli risultati personalizzati. Ben presto, a Google capiscono che la combinazione di algoritmi e analytics è una potenziale miniera d’oro per vendere pubblicità (advertising) agli inserzionisti. O, meglio sarebbe dire, per vendere gli utenti stessi agli inserzionisti. Nasce Adwords. E la guerra delle news ha inizio.
L’alba dei giganti
Mentre Google è in marcia per diventare Big G – Brin e Page rifiutano un’offerta di acquisizione per 3 miliardi di dollari dal concorrente Yahoo – l’industria dei media è prigioniera di una timidezza digitale. Tutti gli editori sono consapevoli della necessità di esserci, ma nessuno ha ancora capito bene come la Rete possa essere fonte di ricavi. Per altro, l’esplosione della bolla di Internet, a cavallo del secolo, ha lasciato per strada morti e feriti e bruciato ricchezza. Google non è ancora un nemico e, nel 2002, lancia il servizio “Google News”, un aggregatore di notizie diviso per lingue e Paesi. Per gli editori e le redazioni dell’industria dei media il parametro diventa il traffico. Secondo un semplice assioma in base al quale un aumento del traffico sul proprio sito si tradurrà in un aumento di valore degli spazi pubblicitari da vendere. E’ l’attenzione la nuova moneta dell’era digitale e Google, che nel frattempo si quota a Wall Street, aiuta a catturarla.
Quando nel 2004 Mark Zuckerberg e altri tre giovani nerd inventano il “libro delle facce”, Facebook, nessuno può lontanamente immaginare che nell’arco di 15 anni, quel libro di facce arriverà a contarne oltre due miliardi, la comunità virtuale più popolosa e diffusa del pianeta. Facebook parte alla conquista del mondo – quotazione in Borsa, acquisizione di startup e potenziali concorrenti, da Instagram a Whatsapp – e l’industria tradizionale delle news entra in un tunnel del quale ancora non vede l’uscita.
Il patto mefistofelico
Gli algoritmi e gli analytics consentono a Google e Facebook di stipulare un patto mefistofelico con gli internauti. In cambio di servizi “gratuiti” e sempre più precisi, ottengono l’autorizzazione a incamerare e processare terabyte di dati personali. Che sul mercato della pubblicità valgono oro. Per due ragioni. Consentono all’inserzionista di raggiungere con maggiore precisione la sua customer base e, soprattutto, di fare dumping sul prezzo della pubblicità. Che sulla Rete viene offerta a prezzi stracciati rispetto a quelli della carta, dove la pubblicità ha quale destinatario un pubblico indefinito.
Accade così che le aziende comincino ad investire budget sempre maggiori nel mercato pubblicitario digitale, e che della torta i media tradizionali riescano a intercettare solo le briciole. Nel 2020, Google arriverà a controllare quasi il 50 per cento del mercato pubblicitario online, Facebook poco meno del 25 per cento. Inoltre, la disponibilità gratuita dei contenuti informativi in rete, combinata al cambio di abitudini di consumo delle notizie da parte delle nuove generazioni, allontana i lettori dalle copie cartacee.
Che guerra sia
L’industria tradizionale dei media comincia una battaglia che è quella della sopravvivenza. E il cui pedaggio è altissimo. Riduzione dei profitti, tagli del personale, chiusure. Né l’introduzione dei paywall, secondo formule diverse, è sufficiente a compensare le perdite di un modello industriale tarato sul secolo della carta. Rupert Murdoch accusa Google di “rubare” le notizie ai giornali. E’ il 2009, e il proprietario di NewsCorp, che edita numerose e importanti testate nel mondo, decide di andare allo scontro, chiedendo a Google di “deindicizzare” i propri contenuti. Così facendo però, il traffico sui siti delle testate crolla e, presto, Murdoch è costretto a tornare sui propri passi. Il seme della rivolta, tuttavia, è gettato. Al fianco degli editori si schierano i governi, soprattutto quelli europei, preoccupati dallo strapotere di Big Tech, che grazie alla propria extraterritorialità riesce a eludere leggi e regolamenti nazionali in tema di fisco, privacy, concorrenza.
Nella loro raggiunta dimensione planetaria, Google e Facebook sono ormai refrattari a ogni controllo e coercizione. Se ne accorgono nel 2014 gli spagnoli quando, in seguito all’emanazione di una legge sul copyright che obbliga i motori di ricerca a pagare gli editori per l’uso dei contenuti giornalistici, Google decide di chiudere Google News in Spagna, provocando un crollo del traffico verso i siti di informazione.
Ma come cantava Kurt Cobain, il vecchio nemico a volte viene come amico. Le grandi piattaforme digitali sono consapevoli che il muro contro muro non serve a nessuno: la disponibilità di notizie sui propri servizi ne aumenta il valore e soprattutto cattura l’attenzione degli utenti, li spinge a interagire e a cedere i propri dati. La torta è troppo grande per non esplorare e cercare un approccio amichevole: basti pensare che dal 2008 al 2020 Facebook vede aumentare il suo fatturato da 272 milioni di dollari a oltre 85 miliardi.
Il lupo si fa agnello
Il lupo si fa agnello. O, almeno prova a posare tale. Sia Google che Facebook decidono di offrire agli editori le risorse di cui dispongono in abbondanza: denaro liquido e tecnologia. Nel 2015, Big G lancia in Europa il DNI Fund, un fondo per finanziare progetti giornalistici, che in 4 anni investirà oltre 140 milioni di euro a sostegno di 600 progetti per piccole e grandi testate, di informazione locale e brand internazionali. E mette a disposizione dei siti di news la tecnologia Amp, ottimizzata per il mobile. Mentre Facebook lancia gli Instant Articles, una tipologia di contenuti giornalistici adatta al caricamento veloce sulle pagine social. Zuckerberg offre agli editori anche strumenti e occasioni di monetizzazione, i video di Facebook Live, lancia il Facebook Journalism project, sempre all’insegna del binomio soldi / tecnologia. E infine Facebook news, per ora soltanto negli Stati Uniti e nel Regno Unito: un “canale” parallelo rispetto alle bacheche personali, riservato alle notizie e riempito di contenuti che Facebook paga agli editori.
L’Europa scende in campo
La strategia dell’appeasement non ferma tuttavia l’offensiva dei governi. Nel 2019, l’Unione europea, sotto la guida del commissario Gunther Oettinger e con il sostegno dell’Associazione europea degli editori presieduta da Carlo Perrone (vicepresidente del gruppo Gedi, che edita Repubblica), vara la direttiva copyright, grazie alle quale i singoli paesi dell’Unione potranno dotarsi di leggi nazionali vincolanti per le piattaforme. E’ un passaggio chiave. Che divide. Si levano le voci di chi sostiene che pretendere il riconoscimento del diritto di autore sui contenuti condivisi in rete rappresenti una limitazione alla diffusione della conoscenza e della libertà di espressione. Inoltre, c’è il precedente spagnolo del 2014: l’obbligo di pagare potrebbe indurre le grandi piattaforme a sospendere il servizio. Così, in Francia, dove il governo accelera sulla direttiva europea copyright, ci si accorge che la battaglia non può essere vinta sul diritto di autore ma piuttosto sulla lotta contro i monopoli. Entra in campo l’autorità antitrust, sulla base del principio che Google e Facebook sono monopolisti nei propri ambiti e quindi hanno il potere di dettare le regole al di fuori della concorrenza: se non accetti le condizioni di Google, sparisci dalla rete. Non c’è un altro motore di ricerca concorrente che garantisca lo stesso servizio. Ed è così che le parti trovano una mediazione e Google accetta di remunerare gli editori francesi, siglando un’intesa collettiva sulla cui congruità la discussione, in Francia e in Europa, continua ad essere vivace.
Il caso Australia e prove di armistizio
E arriviamo a questo inizio del 2021, agli antipodi australiani, dove si gioca una sfida globale che investe, lo abbiamo visto, piani diversi e molto complessi: libertà d’espressione, libertà di impresa, antitrust, privacy, libertà del web. Il “News Media and Digital Platforms Mandatory Bargaining Code” (codice di contrattazione obbligatoria tra media informativi e piattaforme digitali) appena approvato dal Parlamento di Canberra ha aperto il vaso di Pandora. Scatenando una reazione a catena. La legge è il frutto di oltre un anno di ricerche sullo stato di crisi profonda in cui versano i media australiani. A partire dal 2005, gli introiti pubblicitari del mercato delle news australiane sono crollati del 75% e decine di giornali, soprattutto locali, sono stati costretti a chiudere, cancellando migliaia di posti di lavoro. La crisi, secondo il governo australiano, ha due colpevoli principali: Google e Facebook, rei di aver creato un grave squilibrio competitivo nel mercato della pubblicità. Secondo i calcoli dell’authority per le comunicazioni, Big Tech si mangia quasi tutta la torta pubblicitaria: su 100 dollari di investimento, 53 vanno a Google, 28 a Facebook e 19 a tutti gli altri.
La legge impone a Alphabet Inc (Google) e Facebook (e in futuro potrebbe toccare ad altri) una contrattazione obbligatoria con i media australiani: devono pagare per pubblicare i link frutto del lavoro giornalistico dei media australiani. Attenzione però: non tutti i media sono protetti dalla legge, ma solo quelli che aderiscono all’ACMA (Autorità delle comunicazioni e dei media) e che soddisfino alcuni requisiti: oltre a standard etici, produzione di contenuti originali, indipendenza, i media devono essere economicamente solidi, con ricavi annuali di oltre 150.000 dollari australiani (quasi 100.000 euro). Il che taglia fuori molti piccoli siti. Un primo segnale che la legge è stata voluta e ritagliata su misura per un grande attore di questa vicenda: Rupert Murdoch, magnate sì australiano ma protagonista del mercato editoriale mondiale. Paradossalmente, a beneficiare della legge è anche il liberal Guardian, che sbarcò in Australia proprio per fare il “cane da guardia” nel monopolio dell’informazione targata Murdoch. Se media e piattaforme non si accordano sulle compensazioni, stabilisce il Codice, la trattativa passa nelle mani di un arbitrato indipendente che indica quale prezzo debba prevalere. La legge impone anche ai Big Tech la condivisione dei dati raccolti sugli utenti e una maggiore trasparenza sui cambiamenti di algoritmo (almeno 30 giorni di preavviso) . Il cappio dei link a pagamento, piuttosto stretto considerato che ora le piattaforme non pagano nulla per i link, ha fatto scattare nei due giganti tech reazioni opposte. Google ha apparentemente alzato bandiera bianca. Facebook ha lanciato l’atomica. Il motore di ricerca di Mountain View ha stretto accordi con i maggiori editori australiani utilizzando il nuovo “News Showcase”, una “vetrina” che comparirà nel motore di ricerca come una serie di pannelli interamente curati dagli editori. Oltre a News Corp. di Murdoch – di cui non si sa l’entità del pagamento – altri editori come Nine Entertainment a Seven West hanno accettato circa 23 milioni di dollari l’anno per comparire su Showcase.
L’approccio di Facebook è stato più radicale. Senza preavviso e prima ancora che la legge fosse varata ha cancellato dai feed degli australiani tutti i link dei media australiani: giornali, tv, siti sono spariti dalle bacheche. Dopo cinque giorni di duello serrato Facebook e il governo australiano hanno annunciato la tregua. Il social rimetterà in linea le pagine dei media, in cambio di una modifica sostanziale della legge, come annunciato dal ministro del Tesoro Josh Frydenberg e da quello delle Comunicazioni Paul Fletcher. Il governo si impegna a “prendere in considerazione il contributo che un’azienda porta all’industria dell’informazione australiana tramite accordi compensativi prima di farla sottostare alle regole del Codice’”. In altre parole: se Facebook accetta di stringere sufficienti accordi finanziari con gli editori potrà essere esentata dalla procedura di arbitrato e anche dagli altri elementi della legge che per Facebook costituiscono una cessione di potere potenzialmente pure più pericolosa dei soldi.
Chi sta con chi
A valle di questi venti anni, i monopolisti, gli idealisti, i paladini della libertà d’espressione, e quelli della libertà di impresa, si ritrovano mescolati. Nelle posizioni che non ti aspetti. Ormai pochi ricordano quando Google si presentò al mondo alla fine degli anni Novanta con un motto esorbitante e naif: “Don’t be evil”, non essere cattivo. Cosa c’entrasse questa dichiarazione di intenti con il tentativo (riuscitissimo, peraltro) di creare il miglior motore di ricerca della storia, pochi se lo chiesero e nessuno lo capì. Era la più classica excusatio non petita. Di essere o di apparire cattivo a Facebook non è invece mai importato nulla. E il mito di Mark Zuckerberg appare tutt’altro che scalfito sia dal recente The Social Dilemma, il documentario Netflix che descrive l’algoritmo di Facebook come una bestia in grado di porre fine alla convivenza civile dell’umanità, sia soprattutto dal formidabile The Social Network, in cui la penna di Aaron Sorkin dipinge il fondatore di Facebook come un bullo anaffettivo impareggiabile nel guadagnare sulle relazioni altrui, visto che lui non sa averne. Le opposte narrazioni non hanno impedito a Google e Facebook di trovarsi nello stesso campo e a Facebook di seguire in ultima analisi la strategia di Google In questo perimetro, ti aspetteresti di trovare assai a proprio agio il monopolista informatico per antonomasia. Parliamo di Microsoft, l’azienda fondata da Bill Gates, che negli anni Novanta del Novecento riuscì a mangiarsi non uno ma due mercati: il mercato dei sistemi operativi per personal computer (Windows) e quello dei software (Office), tanto che al termine di una lunga indagine antitrust gli Stati Uniti nel 2000 venne condannata a dividersi in due aziende distinte, una di sistemi operativi e un’altra di software (una pena severissima che poi sarebbe stata in buona parte annullata quando alla Casa Bianca arrivo Bush al posto di Clinton). E invece, nella guerra delle notizie, Microsoft è al fianco degli editori. Una scelta che solo a una lettura superficiale può risultare una sorpresa. Dopo aver dominato un mondo in cui informatica significava computer ancorati a una scrivania, programmi stampati su cd e connessioni lentissime, Microsoft ha mancato clamorosamente, per non aver mai davvero partecipato, la corsa iniziata dieci anni fa, basata su smartphone, cloud computing e informazione condivisa. Costringere gli svelti mammiferi che saccheggiano indisturbati questa prateria a pagare almeno una parte del terreno su cui razzolano, permetterebbe al dinosauro di Redmond, che resta una delle società più liquide del mondo, di schivare l’asteroide e rimettersi in gioco.
E visto che in queste dinamiche la storia conta sempre molto, bisognerà pure ricordare che tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento Bill Gates costruì la sua fortuna proprio su questo principio. In un mondo di nerd, in cui il software veniva considerato né più né meno che una formula matematica, qualcosa che si doveva scambiare e non commercializzare, Microsoft fu la prima a vendere alle aziende, con accordi esclusivi, programmi che aveva scopiazzato qua e là. È questo il peccato originale per cui in certi ambienti Bill Gates è visto ancora come il diavolo: aver violato il patto fondativo dell’Eden informatico, il libero scambio dell’informazione.
La platea
Mark Zuckerberg e altri tre giovani nerd hanno inventato Fb nel 2004. Il social media ha una platea di 2 miliardi di persone

La rivolta
Nel 2009 a guidare la prima rivolta degli editori contro lo strapotere dei social media è il magnate Rupert Murdoch

L’uomo con la giacca di fustagno
Così arriviamo al terzo paradosso di questo panorama. Se guardate bene, accanto a Google e Facebook, per niente intimorito dalla compagnia, vedrete un professore con la giacca di fustagno, l’aria timida, i capelli radi e l’accento britannico. È sir Tim Berners-Lee, il più grande inventore vivente. Pensatelo come Panoramix, il druido che ha dato ai galli di Asterix la pozione magica. Come abbiamo ricordato all’inizio di questo viaggio, è lui che, nel 1989, nella sua stanzetta al Cern di Ginevra, prende gli ingredienti che fino ad allora avevano confinato internet nel mondo dell’accademia, li mescola e crea il World Wide Web, l’interfaccia ipertestuale che ha regalato la rete al mondo, cambiandone la storia. Un’invenzione degna di Gutenberg per la quale Berners-Lee ha guadagnato poca notorietà e neanche una sterlina.
In un libro del 1999, “L’architettura del nuovo web”, Berners-Lee ha spiegato le ragioni che più di trent’anni fa lo convinsero a fondare un consorzio invece di un’azienda: “La mia decisione di non trasformare il web in una mia impresa commerciale non è stata affatto dettata dall’altruismo o dallo schifo per i soldi di cui mi avrebbero accusato in seguito”. Berners-Lee pensava, e pensa, che sorvegliare la creazione di standard condivisi e non proprietari fosse la maniera migliore di diffondere la sua invenzione. E il tempo gli ha dato senza dubbio ragione. Ora Berners- Lee è schierato con i giganti della Rete. L’ingrediente fondamentale del web sono i link – è il suo argomento – e “prevedere un pagamento per linkare determinati contenuti online”, ha dichiarato in audizione al Senato australiano, “rischia di violare un principio fondamentale del web”. Se l’idea australiana fosse adottata globalmente, ha aggiunto, “il web smetterebbe di funzionare”.
E così il cerchio che gli hippie californiani, scesi dai pulmini Volkswagen e tornati nei garage, avevano iniziato a tracciare negli anni Ottanta, si chiude nel luogo dove tutto era cominciato. Le utopie dei padri sono diventate le azioni (a Wall Street), dei figli, e come in un film di Tarantino ormai è impossibile capire chi siano i buoni e chi i cattivi.
Il regolatore
Nel luglio del 2018 l’Unione Europea ha inflitto una multa sostanziosa a Google: 4,3 miliardi di euro



