Redatto il 4 ottobre, aggiornato il 21 ottobre 2024
“L’Emilia-Romagna di nuovo alluvionata: colpa delle bombe di cemento”
di Adalgisa Marrocco
Huffington Post
Il docente di pianificazione territoriale ambientale al Politecnico di Milano: “Dopo i fatti dello scorso anno, era fondamentale fermare l’impermeabilizzazione del territorio, ma non è accaduto. Al contrario, sono state concesse altre deroghe alla legge urbanistica regionale, favorendo ulteriore cementificazione”
19 settembre 2024
L’Emilia-Romagna è di nuovo colpita dall’alluvione: oltre mille persone evacuate, dispersi, scuole chiuse, muri delle case distrutti dall’acqua e fiumi esondati. C’è chi sostiene che la situazione attuale sia addirittura peggiore di quella del 2023: le piogge, infatti, hanno colpito aree già devastate dalle inondazioni del maggio dello scorso anno. E così, inevitabilmente, sorge una domanda: cosa è andato storto? Perché questo territorio si trova di nuovo a fronteggiare un disastro di tali proporzioni?
Paolo Pileri, docente di Pianificazione Territoriale Ambientale al Politecnico di Milano e esperto di consumo di suolo, spiega a HuffPost che “l’Emilia-Romagna consuma e impermeabilizza enormi quantità di suolo da anni, trincerandosi dietro una legge urbanistica regionale del 2017 del tutto inadeguata per la tutela del suolo. In questi casi, i nodi vengono al pettine: sappiamo bene che sull’asfalto l’acqua non si infiltra e scorre veloce accumulandosi in quantità ed energia, provocando poi danni e vittime”.
I dati parlano chiaro: econdo il rapporto ISPRA del 2022 sul consumo di suolo, tra il 2020 e il 2021 l’Emilia-Romagna ha consumato 658 ettari di territorio in un solo anno, posizionandosi al terzo posto a livello nazionale. In pochi anni, la percentuale di superficie impermeabilizzata nella regione ha raggiunto l’8,9%, contro una media nazionale del 7,1%. Dopo l’alluvione del 2023, prosegue Pileri, “era fondamentale fermare l’impermeabilizzazione del territorio, ma non è accaduto. Al contrario, sono state concesse ulteriori deroghe alla legge urbanistica regionale, favorendo ulteriore cementificazione soprattutto nelle aree industriali e produttive”.
Uno dei principali problemi è la scarsa consapevolezza sull’importanza della tutela del suolo: “In Italia, c’è una grande ignoranza su questo tema e scarsa attenzione pubblica e politica. Eppure è risaputo che un suolo cementificato fa scorrere l’acqua cinque volte più velocemente rispetto a un suolo libero, aumentando il rischio di alluvioni”, afferma l’esperto che ha scritto il saggio Dalla parte del suolo. L’ecosistema invisibile (Laterza, 2024). Dunque, “non è solo colpa delle cosiddette ‘bombe d’acqua”, ma anche delle ‘bombe di cemento’ che continuano a essere gettate sul territorio, rendendolo più vulnerabile”.
Oltre alla cementificazione, l’agricoltura industriale gioca un ruolo cruciale: “Trattori e macchinari sempre più pesanti compattano i terreni agricoli, riducendo la capacità del suolo di assorbire l’acqua e contribuendo così agli allagamenti”.
In Italia, insomma, non si fa prevenzione ambientale. “Per ogni euro speso nella difesa del suolo, ne spendiamo tredici per altre attività come l’organizzazione delle elezioni o la manutenzione dell’anagrafe”, denuncia Pileri. “È evidente che, con una tale sproporzione, non si può andare lontano, soprattutto di fronte ai cambiamenti climatici.”
Neanche l’alluvione del 2023 ha portato a un cambiamento significativo nella pianificazione territoriale in Emilia-Romagna.
“I fondi stanziati dopo l’emergenza sono stati usati per ricostruire tutto com’era prima, senza nessuna riflessione su una gestione più sostenibile del territorio. Le esigenze economiche e industriali continuano a prevalere: si costruiranno ancora case, capannoni, parcheggi, come se nulla fosse accaduto”. Emblematica è la vicenda dell’orto della Ghilana a Faenza, dove solo grazie all’intervento dei comitati cittadini si è riusciti a fermare la cementificazione di un’area che l’anno scorso era stata sommersa da un metro e mezzo d’acqua.
“Nonostante tutto, il Comune avrebbe consentito di urbanizzare quella zona con strade e case” sottolinea il docente.
L’Italia ha mostrato poca lungimiranza anche a livello europeo. Nei mesi scorsi, insieme all’Ungheria, il nostro Paese ha tentato di bloccare la “Nature Restoration Law”, una normativa che impone il ripristino del 20% degli habitat terrestri e marittimi entro il 2030.
Nonostante la legge sia poi stata approvata, le resistenze politiche verificatesi dimostrano quanto “la politica sia scollegata dalla realtà del territorio”, osserva Pileri. “Questa normativa avrebbe potuto rappresentare un’opportunità per rendere i territori più resilienti, ma la mancanza di reazione di fronte al rischio che cadesse nel vuoto dimostra il disinteresse di chi governa”.
Alla luce di questi problemi, quali misure dovrebbero essere prioritarie a livello locale e nazionale? “È fondamentale fermare il consumo di suolo e avviare un piano di depavimentazione, rimuovendo il cemento laddove possibile. Occorre sfruttare gli spazi già edificati senza consumare altro territorio e gestire le infrastrutture naturali, come fiumi e canali, secondo criteri ecologici”, sostiene l’esperto.
Accanto a queste azioni, conclude Pileri, “c’è bisogno di un cambiamento culturale. Dobbiamo smettere di pianificare in modo segmentato: la gestione degli ecosistemi non può essere frammentata per comune o regione. A tale riguardo, il progetto di Autonomia Differenziata, che attribuisce alle regioni la gestione esclusiva di risorse fondamentali come i fiumi, è molto pericolosa. Si tratta di una visione miope che rischia di fare ulteriori danni”.
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